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Gli austriaci » L’apparato repressivo  
 
 
Soldato austriaco - stampa - Museo Correr - Venezia  

L'apparato repressivo austriaco nel Lombardo-Veneto, come del resto negli altri territori dell'Impero, poteva contare su tre strumenti: la polizia, l'apparato giudiziario e, da ultimo, l'esercito.

La polizia rappresentava in un certo senso il vero tessuto connettivo di tutta l'amministrazione austriaca nel Lombardo-Veneto. Ad essa spettava la funzione decisiva di occhio della corte e del governo, non solo sulla società locale, ma sulla stessa amministrazione imperiale in loco, realizzando una vera e propria riduzione del potere politico a potere poliziesco.

I rapporti di polizia informavano Vienna di qualunque cosa accadesse, circa il funzionamento dell'amministrazione, la condotta degli impiegati, i minimi movimenti di opinione, e naturalmente i pericoli veri o presunti dell'ordine pubblico. Essa vegliava sulle riunioni, sulla stampa, su tutti i luoghi della socialità, sullo stesso clero. Un controllo capillare capace di penetrare in tutti gli ambiti della società e sorretto da un potere praticamente arbitrario stendeva una fitta rete di controlli.

I ranghi della polizia al pari di quelli della magistratura vedevano la larga prevalenza di funzionari di origine trentina che per motivi linguistici erano in grado di svolgere facilmente la loro funzione.

Il tassello successivo del dominio austriaco era costituito dall'apparato giudiziario. Il processo penale austriaco era segreto e rigidamente inquisitorio, cioè senza alcun dibattimento vero e proprio. L'imputato non poteva essere assistito da un avvocato in alcuna fase del processo. Della sentenza – emessa dal giudice istruttore con il semplice aiuto di due cittadini di provata condotta civica – era reso pubblico solo il dispositivo e non le motivazioni. Infine, in tutti i casi di reati politici il giudice ordinario era sostituito da un giudice speciale.

 


 

  Caricatura milanese del soldato austriaco - 1848 - Musei Civici, Raccolta Bertarelli - Milano

Non solo, ma almeno fino ad una certa data, tra le pene previste erano contemplate anche l'esposizione alla berlina, i colpi di bastone e di verga, il digiuno: pene peraltro non sconosciute anche ad altri regimi dell'epoca. Tuttavia la rigoroso formalizzazione scritta prevista per tutte le fasi processuali, le minuziosissime prescrizioni sulle procedure nonché circa la validità delle prove rappresentavano una obiettiva garanzia per l'imputato.

Il quale di fatto ben difficilmente poteva venir condannato in assenza di una confessione. Ciò che ad esempio determinò la condanna dei cospiratori del gruppo Confalonieri, Porro Lambertenghi nel 1821, furono le incaute ammissioni di Silvio Pellico.

Va notato peraltro che anche la sola confessione non era ritenuta sufficiente prova legale di colpevolezza: era necessaria, infatti, la deposizione conforme di almeno due testimoni giurati o due complici che confermassero l'accusa, il ché però poteva avvenire solo dopo che la loro stessa sentenza di condanna fosse diventata definitiva, in modo da non aver più la possibilità di trarre alcun beneficio dalla conferma in questione.

Per scongiurare le molte scappatoie rese possibili dal codice ordinario il governo austriaco era solito ricorrere al famigerato "giudizio statario" (cioè di Stato), un processo sommario tenuto davanti ad una corte militare, della durata massima di tre giorni, il quale ammetteva due soli esiti, l'assoluzione o la condanna a morte senza possibilità di appello.

Tra gli strumenti dell'apparato repressivo veniva da ultimo l'esercito imperiale, il baluardo più saldo dello Stato multinazionale austriaco, esso stesso formato da truppe di varie nazionalità, tenuto insieme da una rigida disciplina e legato all'imperatore da un vincolo di fedeltà assoluta.

Se l'Impero riuscì a sopravvivere per tutto il corso del XIX secolo alle molteplici spinte nazionali sorte al proprio interno lo dovette in grande misura alla saldezza dello strumento militare. Simbolo dell'esercito imperiale, così come dei suoi valori e della sua dura funzione repressiva, fu per circa 3 decenni, dal 1831 al 1857, agli occhi delle popolazioni italiane il feldmaresciallo Johann Joseph Radetzky.


 

 
Joseph Radetzky  - stampa - Raccolta Giordani-Soika  - Venezia  

Combattente di tutte le guerre dell'Impero dal periodo napoleonico in avanti, idolatrato dalle truppe, spregiatore degli italiani (ma non altrettanto delle italiane, da una delle quali ebbe ben 4 figli) Radetzky non esitò in tutte le occasioni, come per esempio con il famoso sciopero del fumo escogitato dai milanesi per colpire le finanze austriache, a esercitare, per mantenere l'ordine pubblico, la repressione più provocatoria seminando le vie delle città con morti e feriti.

Così come esercitò spietatamente i suoi poteri negando nel 1853 la grazia ai martiri di Belfiore – i martiri di Belfiore – che trovarono la morte per impiccagione a Mantova.

Sono davvero come una sorta di riassunto della vicenda imperiale austriaca i versi che il poeta Grillparzer dedicò al vecchio feldmaresciallo e che furono incisi sul piedistallo del suo monumento a Vienna: «In deinem Lager ist Österreich. Wir Andern sind einzelne Trümmer» («Nel tuo campo è l'Austria, noi altri non siamo che frammenti»).

 

Notificazione

Riportiamo di seguito l'Imperial Regia Notificazione del 19 agosto 1820 che vietava nei territori del Lombardo-Veneto l'adesione alla Carboneria comminando le pene più severe per chi avesse violato il divieto.

Le mie prigioni. Memorie di Silvio Pellico. Seguite dalla Addizioni di Piero Maroncelli, con proemio e note di C. Spellanzon, Milano, Rizzoli, 1933, p. 42.

 

La censura

In tutti gli Stati preunitari della penisola – escluso il Piemonte a partire dal 1848 – vigeva una rigida censura sulla stampa di qualsiasi tipo. Qui è descritto il regolamento di censura che l'Austria applicò nelle province venete a partire dall'inizio della Restaurazione.

G. Berti, Censura e circolazione delle idee nel Veneto della Restaurazione, Venezia, Deputazione di Storia patria per le Venezie, 1989, XXVII, pp. 2-4.


Radetzky e le Cinque giornate di Milano

Quelli che seguono sono i dispacci con cui il 22 e il 23 marzo 1848 Radetzky informò il governo di Vienna della impossibilità di tenere Milano in rivolta e della conseguente necessità di ritirarsi con le sue truppe nel “Quadilatero”.

A. Luzio, Studi critici, Milano, Casa Editrice L.F. Cogliati, 1927, pp. 272-273.

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